Perché è importante trovare un accordo sul contratto dei portuali.


DI TEODORO CHIARELLI

Il vero obiettivo di chi vorrebbe prolungare sine die il confronto, sperando in un duro conflitto, è di cassare il Ccnl unico e di agire sul costo del lavoro, puntando sulla divisione tra i lavoratori.

Come Shipmag documenta da diversi giorni, nei porti italiani cresce la tensione. Per le notizie che filtrano sulle manovre in corso per modificare la legge del 1994 che ha riformato gli scali. E, soprattutto, a causa della rottura delle trattative sul rinnovo del contratto di lavoro dei 20 mila portuali. Dalle assemblee di Livorno e Genova è emersa una chiara volontà di sciopero sulle banchine. Si invocano iniziative dure, che potrebbero riaccendere la conflittualità in un momento particolarmente delicato per i porti italiani.
Prima della riforma della portualità del 1994, i porti erano gestiti operativamente dal pubblico, dallo Stato. Il Consorzio autonomo del porto di Genova, il Provveditorato del porto di Venezia, gli Enti portuali di Trieste e Napoli, le Aziende dei mezzi meccanici negli altri scali, svolgevano le funzioni di impresa. Erano delle Spa pubbliche che sommavano compiti autoritativi, di governo, di disciplina e di regolazione con quello d’impresa. Definivano le tariffe insieme all’utenza portuale, agli agenti marittimi per gli armatori e agli spedizionieri in rappresentanza della merce. La funzione d’impresa degli Enti pubblici spaziava dai piani di ormeggio, ai planning di carico, alla guida dei mezzi meccanici su rotaia a ciglio banchina. Ai portuali, ossia le compagnie portuali, individuate e protette dagli articoli 109 e 110 del Codice della navigazione, il compito di mettere a disposizione manodopera, professionalità e mezzi per il bordo e a piazzale.
Con la riforma si sono fatti arretrare alle sole funzioni di governo, regia, programmazione e disciplina i soggetti pubblici. Per chiudere con le passate gestioni lo Stato si è dovuto accollare oltre 1.200 miliardi di lire di debiti accumulati dagli enti pubblici negli anni. Questi debiti sono stati pagati per 10 anni da tutti porti italiani, lasciando allo Stato il 50% delle tasse di ancoraggio e delle merci. Si sono dovuti spendere tanti soldi per ridurre, attraverso gli esodi, a 1.500 i dipendenti degli enti che erano 10 mila. Analogamente i portuali sono passati da 21 mila a 4.500.
La gestione delle operazioni portuali è diventata privata. Sono stati assunti migliaia di giovani lavoratori. Oggi, per la verità, non più tanto giovani. Si è ridotto, a seguito della riforma portuale, la legge 84 del 1994, il gap con il Nord Europa. La Fiat, ad esempio, assunse la gestione del terminal di Pra’/Voltri. Agenti marittimi, spedizionieri, autotrasportatori e compagnie di navigazione sono diventati terminal operator. Nei porti c’erano ben 15 contratti di lavoro. Da quello metalmeccanico a quello dei servizi. Per superare questa situazione, che creava una competizione che faceva leva sul costo del lavoro piuttosto che sulla qualità delle imprese, si è stabilito per legge il Contratto unico dei lavoratori dei porti. Compresi i dipendenti delle Autorità portuali. E’ stata una grande conquista. Unica nel suo genere se paragonata alla diffusione di contratti nel settore aereoportuale o della logistica.
A distanza di 30 anni, caratterizzati da una sostanziale pace sociale, si avverte il rischio di una rottura, di una messa in discussione di equilibri che hanno reso la nostra portualità capace, evolvendosi in un rapporto positivo tra impresa e lavoro, di svolgere un proprio ruolo, garantendo per di più l’interesse nazionale. Lo stallo che si avverte nel merito del rinnovo del Ccnl risulta rischioso su più aspetti. La verticalizzazione dei processi logistici, pur apprezzandone il valore competitivo per gli operatori multimodali che la perseguono, presenta dei rischi sociali e di tenuta contrattuale. Una riduzione del ruolo e del peso della fase portuale può diventare una rottura, accompagnata da una crisi degli operatori portuali, con quanto il legislatore ha impresso nella norma con l’unicità contrattuale.
Questa è la posta in gioco. In sostanza vi è il rischio, concreto, che quello che accade nella logistica, dove non troviamo soltanto operatori rigorosi, ma anche contratti al ribasso, subappalto, cooperative spurie e lavoro in nero, possa essere imposto anche nei porti. E’ di fondamentale importanza, perciò, che le parti sociali sedute al tavolo del rinnovo del contratto dei porti comprendano che oggi un accordo è quanto mai indispensabile. Bisogna impedire a chi vorrebbe prolungare sine die il confronto, quasi sperando in un duro conflitto, di realizzare il vero obiettivo: cassare la norma di legge in vigore e tornare ai molti contratti, puntando ad agire sul costo del lavoro e alla divisione tra i lavoratori. Crediamo che l’interesse della portualità, delle imprese e dei lavoratori non sia questo.

Fonte – Shipmag